Ho trattato il tema del labirinto in diverse occasioni. In particolare nel 1992, quando al Forte di Bard (AO), a cura di Janus e di Marisa Vescovo, è stata allestita una mia personale intitolata “Casanova: Labirinto o Narciso”, mentre per conto della Silvy Bassanese Arte Contemporanea di Biella realizzavo, nel contempo, una cartella di quattordici grafiche intitolata “Herbarius-Labirinthus”, presentata successivamente in alcune gallerie. Lo stesso tema, sebbene declinato in altre forme, è presente in almeno altre due esposizioni: “Paesaggi interiori” (Galleria Elefante, Bergamo, 1998) e “Pensieri, Parole, Opere e Omissioni” (Galleria Civica d’Arte Moderna, Saint-Vincent, 1999).
Ma il labirinto, inteso come concetto “interiore”, ossia come ineludibile ramificazione dei destini individuali e come gorgo esistenziale, accompagna tutta quanta la mia riflessione artistica. Tant’è vero che nella personale “Carte di Identità – Ricapitolazione”, allestita nel 2017 al Museo Gamba di Châtillon (presentazione di Maurizio Ferraris), ho installato al centro di una sala del castello il mio “Labirinto o Narciso” del 1992, reintitolandolo “Moltiplicazioni identitarie”, opera attualmente visibile e soprattutto “visitabile” al castello di Issogne. Si tratta di un labirinto fatto di specchi in cui chi entra al suo interno si ritrova davanti a una realtà composta dalle infinite immagini di se stesso e dunque all’infinita possibilità di autoreplicazione. Il che significa anche, poeticamente, far propria l’esperienza di una continua "ramificazione" dei possibili futuri, ovvero di avvicinarsi a quell'interpretazione "a molti mondi" proposta dalla meccanica quantistica.
Ma, senza volere scomodare gli orizzonti più audaci della fisica moderna, si può anche dire che “fare esperienza del labirinto” significhi scoprire che ogni esistenza è, in essenza, labirinto e che ogni labirinto, in fondo, non è che un libro (un’esistenza) aperto a diverse possibili linee temporali che, come sosteneva lo scrittore argentino Borges, si aprono su molteplici possibili passati convergenti in un unico futuro. In questo senso il “libro-labirinto”, di cui Borges ci parla nel suo racconto “Il giardino dei sentieri che si biforcano”, è un libro circolare (un po’ come la vita) che rimanda a un’immagine “della biforcazione nel tempo, non nello spazio” (un po’ come in Proust).
In ogni caso, una volta penetrati all’interno di un labirinto di specchi come il mio (per altro ripreso da un’idea di Leonardo da Vinci), ci troviamo di fronte non solo alla nostra persona riflessa in immagine, ma anche all’immagine di tutte quante le nostre immagini riverberate che ci moltiplicano, ci confondono e ci “svuotano”. Al punto che, non riuscendo più ad afferrarci come unità, ci pare di smarrire la stessa possibilità di rimemorare e di raccontarci. Però quest’esperienza di smarrimento, che può sembrare condurci all’annichilimento individuale, può alla fine consentirci di prendere coscienza della nostra vacuità personale e, partendo da questo vuoto, di rintracciare magari un filo d’Arianna che ci guidi verso l’uscita, ovvero verso la via che conduce ad una più autentica pienezza d’essere.
Marco Jaccond