Rosat

di Giorgia Madonno

· SCRITTURA

Roger era un omone alto, con un grosso ventre tondo che si portava in giro con autorevolezza contadina. Dicevano che fosse la
pecora nera della famiglia, in una famiglia che di pecore bianche proprio tante non ce n’erano. Non che fosse uno scapestrato, ma portava in sé in alta percentuale quello stampo di famiglia che li rendeva inconfondibilmente “diversi”.

“Mi hanno dato una sola vita – diceva – e me lavoglio godere prendendola per le corna se è necessario”.

Personaggio con carattere, era diventato imprenditore edile in un’epoca, il dopoguerra, in cui rischiare con intelligenza e un po’ di spregiudicatezza dava i suoi frutti. “Il tunnel del Monte Bianco l’ho fatto io con i miei” raccontava con orgoglio. Specializzato in costruzioni di strade aveva avuto a che fare con i francesi d’oltralpe che,
come raccontava spesso, avevano fatto male i conti e così gli italiani avevano scavato da una parte, i francesi dall’altra e alla fine non si erano incontrati.

Costruire le infrastrutture in Valle d’Aosta era stato un bell’affare, esoprattutto una bella avventura. Arrivato il momento della pensione si era comprato un terreno, una pineta e instancabile aveva iniziato a costruire sentieri con benne di seconda e tripla mano per raccogliere il legname.

Fu in occasione di una raccolta che Pietro lo rivide, sessantenne, in ottimasalute, con uno spirito ragazzino e un’incoscienza fuori dal comune. Pietro aveva quaranta cinque anni allora e aveva acquistato una casa di villeggiatura nel paese in cui da adolescente aveva trascorso le vacanze estive, ospite di prozii, pascolando le mucche, tirando la cinghia, come le abitudini del posto richiedevano e affezionandosi a quella terra e a quella gente che lo chiamavano
“il cittadino”.

Roger era un suo cugino alla lontana e aveva condiviso con lui lescorribande in mezzo ai boschi e le strigliate severe quando al posto di sorvegliare le vacche si addormentavano all’ombra di un pino.

Il paese si chiamava Rosat e all’epoca aveva solo due case, due stalle etanti campi a pascolo. Con il tempo era stata costruita qualche casa di
villeggiatura ma restava pur sempre una località poco nota in cui era piacevole tornare per godersi la tranquillità, il paesaggio montano, il silenzio e il profumo del bosco.

A Rosat avevano costruito una chiesa e un bar ristorante, unica concessioneal turismo. Si guardava con saggio sospetto a ogni proposta innovativa che potesse portare masse chiassose di persone alla ricerca di una montagna travestita da città, di una montagna “da consumare”.

Roger al bar si fermava spesso, mattino e sera, a bere un bicchiere dibianco e a fare quattro chiacchiere con gli amici muratori che venivano a costruire le case per i villeggianti. Era il rito dell’”apero’”, un modo
diverso di concepire l’amicizia rispetto alla città: in montagna non si
telefonava agli amici per pianificare un incontro, se c’erano all’aperò bene se non c’erano sarebbe stato per un’altra volta. Un concetto fluido di convivialità che richiedeva presenza frequente e uno stomaco di ferro.

“Come te la passi? E’ un bel po’ di tempo, che non ci vediamo”, attaccòRoger rivolgendosi a Pietro che non vedeva da anni. Non ci fu bisogno d’altro che una pacca sulla spalla per rimettersi immediatamente in quella confidenza di chi ha vissuto gli anni della gioventù insieme. Il faccione di Roger si era aperto in un ampio sorriso un po’ sdentato e Pietro riconobbe senza fatica
l’affabilità semplice del suo amico. Roger non era più un uomo giovane ma era ancora pieno di energie, aveva mani grosse, segnate dal lavoro manuale, con una salda stretta di bonarietà verso gli altri e verso la vita.

“Ti posso offrire un bianco?” - chiese Pietro e Roger accettò volentieri einiziò ad informarsi sulla vita di Pietro, che aveva continuato a vivere a
Milano e di essersi iscritto dopo il liceo all’università. Era diventato
ingegnere mentre lavorava in una ditta che fabbricava apparecchiature mediche, poi si era sposato e aveva avuto due figli. Era riuscito a fare carriera abbastanza in fretta e da quando era diventato dirigente soffriva le pene dell’inferno perché aveva dei ritmi di lavoro che lo sfinivano e lo stressavano molto. “Questo è il primo sabato dopo quattro mesi che non lavoro e così sono venuto con la famiglia in montagna. Da lunedì se tutto va bene sono in ferie.”

Roger gli chiese con tono un pò perplesso: “E chi te lo fa fare, di viverecosì”? Da una parte non comprendeva fino in fondo dove stesse l’anormalità di una vita di fatica e del lavoro al sabato, visto che per qualsiasi montanaro questa era la normalità, dall’altra però non concepiva come si potesse essere felici in città, una gabbia di cemento dove tutti erano sempre di corsa e stressati. “Non riesco proprio ad immaginare di andare a vivere lontano da questi posti” aveva detto Roger quando Pietro gli aveva raccontato di essere stato al Sud qualche anno per lavoro. “Una volta sono stato invitato a Venezia
da un conoscente, ho resistito tre giorni, poi sono dovuto scappare perchè mi mancavano troppo le mie montagne, non c’è nulla comparabile alla bellezza di qui.

Certo Roger non poteva cogliere dietro quel breve racconto le domande cheda qualche tempo Pietro si poneva riflettendo sulla sua vita e Pietro si chiedeva il perché di questa voglia di aprirsi con Roger. Forse, nonostante tutte le differenze, guardava allesue scelte con una sorta di rimpianto per quello che lui non era stato.

Gli era capitato di parlare di questi temi con suo figlio,il più piccolo, Stefano, e parlando con lui si era stupito di trovare un se’ stesso
molto diverso da quello degli anni subito dopo università, anni in cui la sua fede era lo yuppismo e l’obiettivo la scalata sociale.

“L’importante” – diceva oggi a suo figlio – “ è chequalsiasi scelta tu faccia nella tua vita professionale tu abbia coscienza dei
vantaggi e degli svantaggi che comporta e dovrai pensarci tra pochissimo, perché poi sarà troppo tardi. Se vuoi fare carriera devi sapere che dovrai rinunciare a molte cose della tua vita extra-professionale, che questo ti permetterà di soddisfare il tuo orgoglio e la tua voglia di realizzazione e di successo, ma ti coinvolgerà completamente, monopolizzando il tuo tempo.
Viceversa potrai dedicarti alla famiglia, se ne avrai una, al divertimento,
agli amici, lavorando le tue otto ore ma senza aver la possibilità di
dimostrare che vali quanto gli altri, se non più degli altri e rinunciando ad una crescita economica e di carriera significativa. Cio’ che è sicuro è che non potrai scegliereuna via di mezzo, per lo meno in città e in contesti molto competitivi. Gli aveva fatto questo discorso, e probabilmente avrebbe dovuto farlo anche al figlio
più grande. Quanto erano diversi i due fratelli!

Forse poi – pensò - non è neanche questione di scegliere,in queste cose si segue il proprio istinto e la propria personalità.

Giovanni, il più grande, aveva sempre sentito il bisognodi dimostrare di essere il migliore, quasi la vita fosse una gara in cui chi
arriva secondo deve provare vergogona. Per lui sarebbe stato naturale ricercare anche nel lavoro quel successo che aveva sempre avuto negli studi, anche se forse con il tempo sarebbe riuscito a trovare un migliore equilibrio e a convivere con i propri limiti accettandoli.

Il più piccolo, Stefano, sembrava diverso, forse era ancora presto perdirlo, del resto frequentava ancora le superiori, ma dava l’impressione di non essere disposto a sacrificare molto sull’ altare del successo. Stava bene con se stesso anche quando veniva rimandato a Settembre e sua madre gli portava l’esempio di Giovanni che era tanto bravo.

Stefano aveva scelto una scuola professionale, con grande disappunto diSara e in fondo con la preoccupazione di suo padre, che nonostante le sagge prediche, temeva le regole di un mondo del lavoro in cui la selezione era sempre più spietata. A volte non accettare le regole del gioco poteva effettivamente voler dire stare a spasso, senza lavoro per chissà quanto tempo.

Certo erano equilibri difficili da trovare, e sicuramente non potevapretendere da suo figlio una lucidità che lui stesso a più di quarant’anni non aveva ancora. Se non altro, rispetto a quando era giovane lui, si parlava di più di questi temi, si cercava di esserne più consapevoli. Per quelli della sua generazione non vi erano stati esempi, i loro genitori vedevano nella crescita professionale, ciò che di meglio si poteva desiderare per i propri figli, soprattutto i maschi, possibilità economiche, riconoscimento, gratificazioni.
Abituati al sacrificio determinato dalle ristrettezze i vecchi non si ponevano ancora il problema della “qualità della vita”. E invece I giovani di oggi ci pensavano sempre più spesso. Sara aveva ascoltato con stupore quando le avevano raccontato di un ragazzo appena diplomato in informatica che dopo aver passato delle selezioni durissime aveva rinunciato al posto che gli offrivano perché in
quell’azienda le regole erano chiare fin dall’inizio: orari impossibili e
spostamenti in giro per il mondo continui erano dati per scontati. Con molta serenità aveva detto loro di aver optato per un’altra azienda, più attenta al benessere del suo personale e consci che ormai i ragazzi non vivevano più per dimostrare il proprio valore attraverso il lavoro, i risultati economici e di carriera, bensì cercavano di realizzarsi facendo ciò che li rendeva felici senza assoggettarsi alle aspettative di una società in cui non si riconoscevano più. Chissà forse avevano ragione loro. Lavoro come mezzo non come fine.

Roger e Pietro avevano finito l’aperitivo, quando arrivò Cesare a chiederese Pietro volesse fare una partita a carte. Pietro rimandò a più tardi e propose a Roger di fare un salto a casa sua.

“Così conoscerai mia moglie”. Sara era davanti alla loro casa, una graziosacostruzione in legno e mattoni, con un piccolo balcone in legno intarsiato da cuiscendevano in cascata gerani multicolori. Sara li stava innaffiando e a poca distanza un gruppetto di persone, loro amici, stava discutendo e ridendo di una qualche battuta di uno di loro, un ometto piccolo dalla voce vigorosa e la risata trascinante.

“Sara ti presento Roger, quel mio cugino ricordi? Di quando venivo qui daragazzo.” Sara salutò e la combriccola smise di parlare. Dopo le presentazioni non ci volle molto tempo perché il gruppo socializzasse con il nuovo venuto. Il bello della montagna era anche questo, una convivialità sana e semplice. Erano tutte persone affabili, un gruppo affiatato che si conosceva da molti anni e che appena possibile si ritrovava al villaggio nei week end o durante le vacanze, chi da Torino, chi da Milano o Genova.

Dominique e Paul invece venivano dalla Francia. Lei era una donna simpaticae molto semplice, con una grande passione per le escursioni in montagna. Quando Roger si era presentato era stata la prima a dargli il benvenuto con un sorriso aperto ed accogliente. Da anni usciva con Paul, un uomo sulla cinquantina, equilibrato e gentile. Avevano entrambi un matrimonio alle spalle e dei figli e vivevano ognuno nel proprio appartamento. “Perché – dicevano – quando si invecchia non si riesce più a rinunciare alle proprie abitudini”. Questo fatto aveva acceso all’interno della compagnia lunghe discussioni sulle diverse
abitudini in Francia e in Italia, chiacchiere e confronti accesi, consumati
davanti ad un bicchiere di vino e una sigaretta.

Paul stava raccontando di aver visto le tracce di un camoscio quel mattinoandando a passeggio nel bosco. “Pare chece ne siano verso la Rougette” – aveva commentato Francesco” dovremmo fare di
nuovo un campeggio in alta valle uno di questi giorni “ .

“Così potremmo raccogliere della legna per questo inverno” propose Serena,la moglie di Francesco per la quale comprare legna tagliata e pronta all’uso ad Aosta era sempre sembrato un sacrilegio, un tradimento della vita di montagna. Serena era una donna energica con fare contadino. Era lei a portare i pantaloni in famiglia, come suo marito affermava con orgoglio, e pareva anche fosse lei a tenere i cordoni della borsa. Nella compagnia era un po’ la mamma di tutti,
cuoca stupenda di una cucina sana e rustica, aveva un piglio sbrigativo e un pò goffo, una risata fragorosa e soprattutto un cuore d’oro.

Roger che aveva seguito il discorso, rivolgendosi a Pietro chiese se nonpotesse interessare andare con lui nel bosco verso la Rougette, visto che doveva ripulirlo tagliando la legna. Se volevano potevano dargli una mano. Erano entusiasti, avrebbero potuto bivaccare in uno dei tanti pianori ai piedi della montagna. Nei giorni a seguire non si parlò d’altro. Avevano deciso di partire giovedì, cosìavrebbero avuto il tempo di organizzarsi con calma. Sarebbero stati sei coppie più i figli, in tutto sedici. “Dovremo portare da mangiare per un reggimento”, era stato il commento di Cesare ed aveva cominciato a preparare la lista dei viveri per la sopravvivenza.

La loro amicizia si era consolidata con gli anni. Si era verificata ineffetti una sorta di selezione naturale e solo chi aveva certe caratteristiche
era stato accettato: interessi in comune e soprattutto spirito di gruppo. Il loro segreto forse era proprio quello di essere riusciti a creare una sorta di comunità con regole non scritte molto forti tra cui sicuramente la più importante era la solidarietà. Chiunque arrivava per ultimo in paese dalla città sapeva di poter contare su un invito a cena, chiunque andasse a fare spesa nel villaggio più vicino chiedeva agli altri se avessero bisogno di qualche cosa, insomma era una vera e piccola comunità. Avevano creato dei momenti di aggregazione molto forti: le cene e i pranzi tutti insieme, le partite a carte, le gite in montagna che diventavano delle vere e proprie epopee di cui si parlava per giorni e giorni commentandone gli episodi salienti.

Ognuno conosceva dell’altro i pregi e i difetti e veniva accettato nellasua interezza quando era chiaro che la bilancia pendeva a favore dei pregi. Sovente a casa l’uno dell’altra, vivevano quasi sempre insieme, condividendo la maggior parte dei momenti di relax. Vi erano delle personalità più forti che trainavano il gruppo, vi era chi sapeva con una battuta scatenare l’ilarità dell’intera brigata, ma ognuno apportava il contributo della propria personalità e il risultato era un affiatato gruppo di amici.

Mercoledì tutto era pronto, intorno al tavolo, la sera, mentre giocavano acarte, definirono i dettagli. Sarebbero partiti alle tre del pomeriggio. Cesare e Pietro sarebbero andati con le auto fino al termine della strada poderale sterrata, gli altri li avrebbero raggiunto a piedi, Carlo con la sua moto da trial avrebbe portato qualche sacco e gli altri si sarebbero caricati gli zaini sulle spalle.

Si ritrovarono tutti come d’accordo davanti alla casa di Pietro e Sara, alcentro del paese, era il loro punto di ritrovo. Risate, motteggi accompagnarono la loro partenza dalla Rougette.

“Ci vediamo su allora” disse Cesare a chi si avviava a piedi e la comitivapartì. Chi più rapidamente, chi meno, arrivarono tutti al punto di incontro. Come sempre non mancarono le maledizioni contro chi aveva organizzato quella faticaccia, chi si rimproverava di essersi ancora una volta fatto coinvolgere, chi invece fisicamente più in forma saliva silenziosamente assaporando la salita e al bellezza del paesaggio. Ma tutti in fondo godevano di quel sentiero
in mezzo al bosco, del profumo intenso dei fiori e muschio che solo li si
poteva sentire, della sana fatica che induriva le gambe e le rendeva pesanti come piombo, del sole che penetrava tra gli aghi di pino, della gioia di stare insieme, pregustandosi i momenti di divertimento che avrebbero vissuto.

“Ecco Roger”, gridò Serena. In lontananza in effetti stava arrivando Rogersu un camioncino sgangherato, di quelli che recuperava prima che venissero portati alla rottamazione. Li pagava due lire, li aggiustava alla bene e meglio e duravano quel poco necessario per ammortizzare la spesa senza avere la preoccupazione di doverli trattare con il benchè minimo riguardo. Il mezzo che aveva quel giorno era giallo, i finestrini erano rotti e la porta legata con il fil di ferro.

Roger frenò e si propagò un rumore di ferraglia vecchia, li salutò con lamano e fece loro cenno di montare sul rimorchio dietro. Salirono a turno tutti e Roger fece vari giri. Quando li ebbe posati tutti li lasciò per andare a tagliare la legna e disse loro che sarebbe tornato l’indomani mattina.

Ci volle tempo per preparare il bivacco, prima di tutto bisognava trovareil posto adatto, un largo spiazzo piano vicino ad un torrente per l’acqua, poi bisognava montare le tende, e c’era sempre qualcuno che non si ricordava come si montava la sua, preparare il “vano cucina”, recuperare qualche ramo per accende il fuoco.

La notte trascorse velocemente. Al mattino vennero identificati emotteggiati i “russatori, le schiene erano indolenzite ma presto arrivò Roger a caricarli sul suo trabiccolo rumoroso per salire nella pineta.

Le strade, sconnesse e piene di buche, erano poco di più che dei sentieri.

“Sembra di essere sulle montagne russe” dicevano i ragazzi e si divertivanoun mondo. Gli uomini avevano le motoseghe e aiutavano Roger a tagliare i tronchi più grossi, le donne e i ragazzi raccoglievano i rami e li trasportavano sul camion. Roger li avrebbe poi portati fino a Rosat.

A pranzo si fermarono e Roger mangiò con loro. Seduti su coperte e tronchid’albero fecero un abbondante pic-nic.

Mentre si concedevano una breve pausa si sentì suonare un cellulare.Oggetto malefico. Pietro lo odiava: a causa sua gli era ormai impossibile tagliarsi fuori dal mondo. Lo lasciò suonare a lungo. Poi si decise a rispondere. Era la segretaria del Direttore. – Ingegnere le passo il dott. Silano”.

Sara guardava Pietro da lontano, seduta su un ceppo di legno, immaginandosila conversazione.

All’inizio non riusciva ad accettare quest’intrusione nella loro vitaprovata, quella sfera così fragile e così importante. Non potevano più pianificare nulla, gli imprevisti erano all’ordine del giorno e lei si sentiva così impotente. Eppure era stata lei a spingere suo marito a non rinunciare alla carriera, era stata lei con la sua ambizione a invogliarlo. A poco a poco erano riusciti ad abituarsi, erano diventati più “flessibili”, e lei aveva accettato che suo marito, curioso e intelligente com’era non potesse appiattirsi dietro una scrivania in un ruolo privo di responsabilità e autonomia in attesa delle cinque del pomeriggio. Eppure ogni volta che Pietro le diceva che sarebbe dovuto tornare a Milano, sentiva rabbia dentro per i bei momenti insieme che avrebbero perso.

Ma così fu anche quella volta, Pietro annunciò ai suoi amici che doveva partireper la città e ritornò all’accampamento. Preparò il suo zaino con l’aiuto di Sara, diede un bacio a Giovanni poi si voltò verso gli amici che avevano smesso di tagliare legna per salutarlo, si accomiatò promettendo di tornare al più presto e prese la strada del ritorno.

Lentamente.

Tra qualche ora sarebbe stato a Rosat, si sarebbe fatto una doccia, avrebbemangiato un boccone, poi avrebbe preso l’auto e al pomeriggio sarebbe stato nel caldo afoso di Milano per la sua importantissima riunione.

Seguendo le curve della strada continuava ad interrogarsi su come potertrovare un equilibrio più sano e in fondo forse la risposta partiva proprio dal cominciare a porsi questa domanda.